Siamo in tanti, molti di più che all’inizio di questo progetto e sto lavorando per permettere a chiunque arrivi di recuperare quanto fatto in precedenza. Story hacking è un laboratorio anche per questo, perché riuscire a parlare contemporaneamente agli affezionati della prima ora e ai nuovi arrivati è un problema di design tipico delle community. La prima soluzione, quella più semplice, è il recap, il previously per restare nella cassetta degli attrezzi delle serie tv. Un buon previously non richiede solo una scelta delle sequenze utili per capire l’episodio che stai per vedere, impone di cucirle alla trama e all’anima della storia che continui a raccontare.
La seconda soluzione per orientarti e recuperare lo storico anche al primo incontro con un brand (o con un luogo o con una community) è un po’ più raffinata.
Il previously di Story Hacking
Ci siamo conosciuti entrando nel vivo dell’azione.
Abbiamo risposto a una chiamata che impone di far saltare il banco.
Stiamo cercando di interrompere il mambo tra stasi, chiamata e rifiuto della chiamata.
Il cambio di registro
In una buona storia è il momento giusto per un cambio di registro, che è quasi sempre comico (mio esempio preferito: Elsbeth Tascioni in The Good Wife).
Io però non sono tanto brava a far ridere (se ti interessa consiglio il corso di
), fa caldo, siamo stanchi, le vacanze giocano con noi come l’onda sulla battigia. È un buon momento per fermarsi un attimo. Per chiedersi cosa stiamo cercando di fare, davvero. Qual è l’avventura a cui noi professionisti della comunicazione siamo chiamati? Cosa c’è dietro il rifiuto di molti di noi, ancora incapaci di vedere i social media (cioè il pubblico attivo) come strumenti e non come nemici o seccature? E qual è l’oggetto magico che possiamo donare ai nostri clienti, che ci chiedono di fare loro da mentori ma spesso rifiutano la nostra chiamata all’avventura?Ho una risposta ed è una risposta coerente con un previously, perché il filo conduttore tra il marketing novecentesco e quello dei nostri giorni è il brand. Abbiamo chiuso il Novecento dicendo “no logo” e da quella lezione durissima io mi sono portata a casa che il brand, se vuole sopravvivere, deve unire gli interessi delle aziende a quelle dei clienti. Lo scrivevo già nel 2010, in World Wide We, la cui quarta di copertina recita:
“Passare dalla pianificazione & controllo alla collaborazione & fiducia non è semplice: imparare ad assecondare le direzioni prese dalle persone che vogliono avere a che fare con noi è l'essenza del passaggio strategico dal marketing alla collaborazione. L'essenza di passare da una logica "io e voi" a una logica del "noi".”
Non è certo un percorso concluso, anzi, siamo come le lumache che risalgono i pozzi: non solo lentissimi, ma ogni tre metri su ne scivoliamo giù due (a volte quattro). Il brand, però, è il mio oggetto magico. È il talismano che porto in dote ai clienti smarriti. La bussola che regalo alle persone che vorrebbero sapere precisamente come fare. Io non lo so, precisamente. Però so qual è la direzione. Il brand, anche quando non hai ancora un nome o un logo.
La mise en abyme
Per capire in che modo il brand è, anche, un previously, facciamo riferimento a un dispositivo artistico usato spesso anche dal cinema, la mise en abyme. È un'espressione usata da André Gide “per indicare un espediente narratologico che prevede la reduplicazione di una sequenza di eventi o la collocazione di una sequenza esemplare che condensi in sé il significato ultimo della vicenda in cui è collocata e a cui rassomiglia”.
Nell'arte occidentale, l'espressione indica una tecnica nella quale un'immagine contiene una piccola copia di sé stessa, ripetendo la sequenza apparentemente all'infinito. Il termine ha origine in araldica, dove descrive uno stemma che appare come uno scudo al centro di uno scudo più grande.
Io credo che qui sia nascosto tutto quello che ci serve sapere sia per ideare, arricchire, progettare e dare vita a un brand, sia per distribuirlo in infiniti modi riuscendo a renderlo comprensibile al primo sguardo e interessante al milionesimo. Questa è anche la chiave della memetica, con il meme che fa da “minima unità culturale” che però contiene tutto l’universo di riferimento, il campo di forza delle storie.
A dirsi è più facile che a farsi, e comunque non è facile, ma il mio lavoro di oggi è tutto qui. E se sei qui credo anche il tuo. C’è un altro modo per dire e vedere la stessa cosa, ma ne parliamo un’altra volta. È il momento della nostra ospite, l’esperta di comunicazione e naturopata Marisandra Lizzi.
Marisandra Lizzi e la meditazione
“Cosa hai scoperto e amato, pensando "ma perché non ho iniziato prima?". E ti ricordi chi te lo ha fatto scoprire?”
Quando ho ricevuto questa domanda ero indecisa se rispondere meditazione o bioenergetica. Poi ho trascorso qualche settimana a gestire problemi al lavoro e sono arrivata senza dubbio alla certezza che entrambe sono state scoperte fondamentali nella mia vita, ma la meditazione è stata quella pratica per cui, dopo l'amore a prima vista, è scattata la domanda "ma perché non ho iniziato prima?".
Ricordo esattamente quel momento. Quell'esatto istante in cui una persona, Sarika Bajoria, un giorno, il 3 agosto 2019, in un luogo, il Kadampa — Centro per la Meditazione di New York, durante un workshop dal titolo “Dealing with distractions and trasnsforming problems” mi ha fatto scoprire quella che sarebbe diventata un'abitudine quotidiana. Non poteva essere un caso che il mio ufficio al NUMA dove era accelerata la mia startup, iPressLIVE, fosse a tre numeri civici di distanza dal Kadampa Meditation Center di New York, nello stesso blocco, come dicono da quelle parti.
Non poteva essere un caso che proprio grazie alla mezz’ora quotidiana di meditazione che ho iniziato a praticare ogni giorno alle 12.15 si sia magicamente dissolto un pesante blocco creativo generato da una profonda sofferenza e che proprio grazie a quelle sessioni quotidiane abbia magicamente ripreso a scrivere. Si trattava di pensieri sparsi, ma da quel momento ho sentito di avere dentro di me tutto quello che serviva per provare a cambiare direzione, a provare a connettere il mondo dell'innovazione tecnologica al quale ho dedicato tutta la mia vita professionale con quello della bioenergetica e della meditazione che tanto hanno dato e stanno dando alla mia vita personale.
Sarika è anche fondatrice di Mindful Architect (TM) e Senior Architect Designer in New York City. Le meditazioni e gli insegnamenti durante il workshop hanno permesso di capire a livello esperienziale la natura e i meccanismi di funzionamento della nostra mente secondo il pensiero di Geshe Kelsang Gyatso e come possiamo essere portatori di saggezza in ogni ambito della nostra vita attraverso la meditazione e le diverse pratiche bioenergetiche. L’argomento era decisamente complesso: “Dealing with distractions and transforming problems”.
Che cosa serve di più alle nostre vite? Viviamo in un mondo fatto di distrazioni continue, distrazioni che ci rendono difficile attingere talvolta all’infinita profondità della nostra mente. L’esempio che Sarika ha portato è quello dell’oceano e delle sue onde. Viviamo in un oceano tempestoso ma, se ci concentriamo solo sulla superficie, se osserviamo soltanto ogni singola onda e ci lasciamo distrarre dal suo arrivo, dal suo incessante e continuo salire e discendere, se non accettiamo la sua altezza e non lasciamo che la nostra mente ne comprenda e accetti il fluire continuo per poi lasciarla andare via, non scopriremmo mai l’infinita bellezza del mare intorno, la sua vastità e, probabilmente, cosa ancora più grave, ci perderemmo la bellezza incommensurabile della vita e della natura nel profondo degli abissi.
Di che cosa abbiamo parlato
Delle puntate precedenti. Di far ridere e di sapersi fermare. Di stemmi, scudi, meme e del brand che funziona solo se si collabora. Delle immensità che abbiamo dentro. Dei blocchi che sbloccano. Di bellezza.
Grazie e buona estate, se vuoi essere dei nostri il 22 alle 12:00 iscriviti alla versione a pagamento, c’è una settimana di prova.
Mafe