Tagliamola con l’accetta: il romanzo del Novecento è stato un viaggio dentro se stessi, alla ricerca della propria voce, del proprio pensiero, del proprio io. Nel primo secolo del terzo millennio, che ancora non so bene come chiamare (e questo la dice lunga), quando guardiamo dentro noi stessi invece cerchiamo di ricontattare il corpo e di far tacere la mente, forse perché averla rovesciata come le tasche nei social media ci ha messo di fronte alla semplicità dei nostri pensieri. Se in un romanzo dei secoli scorsi il protagonista poteva restare seduto a guardare l’orizzonte o tornare a casa felice, con uno sguardo satollo sul mondo, nelle storie di oggi non disfiamo mai le valigie, neanche quelle metaforiche. Il matrimonio non è più per sempre. La pensione nemmeno. Invecchiare non è più la fine dei giochi. E le storie, lo dico da un po’, non finiscono più.
Peccato però che uno degli strumenti principali di noi story designer, il monomito di Joseph Campbell, noto anche come viaggio dell’eroe, è un cerchio che finisce al punto di partenza. Si torna a casa. Casa dolce casa. E quindi, ci tocca hackerarlo, almeno un pochino, perché sia per i protagonisti delle storie che leggiamo, guardiamo, giochiamo, sia per i nostri clienti non è detto che la casa sia la meta. O che ci sia una meta.

L’eroe, maschio, in difficoltà, messo di fronte a se stesso, ammazza i mostri (che se hanno un’arma non la sanno mai usare) e torna a casa molto, molto meglio di com’era partito.
Uno dei più grandi esperti italiani di storie ci dice proprio che “L’idea che una storia sia riportabile integralmente al lineare sviluppo di un personaggio è ingenua e riduttiva.”
In realtà, si può affermare con una certa sicurezza che il viaggio dell’eroe, lungi dall’essere una sequenza narrativa universale e archetipica, è il chiaro prodotto, storicamente determinabile e completamente artificiale, di un pensiero dominante (…) Fingendo di incarnare le preoccupazioni universali, essa fissa più che altro le preoccupazioni del pensiero dominante. Non riferisce di un’umanità che esiste davvero, ma piuttosto di una umanità asservita che si è allineata alle parole d’ordine del vincitore.
Insegnare pigramente il viaggio dell’eroe non è solo sciocco, ma controproducente. Ogni volta che lo facciamo tramandiamo una forma di dominio, e approfittando dello smarrimento dei viventi rubiamo loro ciò che di quello smarrimento sarebbe la ricompensa, cioè la libertà.
È Alessandro Baricco, nella Via della Narrazione, preziosissimo taccuino di appunti. Non è solo un discorso femminista, quello di Maureen Murdock o di Marina Pierri, o meglio: non è solo un discorso da femmine.
L’idea del vissero felici e contenti, in sé, è stata fatta a pezzi dalla realtà, e non solo per le coppie. E noi strategist, pubblicitari, marketer come facciamo? Possiamo davvero dire, possiamo far dire ai nostri clienti, possiamo far pagare i nostri clienti per dire ai loro clienti che il lieto fine non esiste e che nella migliore delle ipotesi è solo il punto di una partenza di una nuova storia, di una spirale (evolutiva) invece che di un cerchio?
Certo che sì, possiamo e dobbiamo, perché Carosello è finito, gli anni ‘80 del Novecento pure e la pubblicità, per funzionare, deve costruire una storia in cui qualcuno deve aver voglia di entrare e di restare. Una storia infinita.
La mia risposta alla domanda sui malintesi
(Questo mese rispondo io, per tre motivi. Perché non ho ancora la risposta della persona che volevo. Perché ho tanta voglia di raccontarlo. Perché è una risposta quasi paradigmatica delle resistenze che possono privarti di qualcosa di bello e importante.)
“Cosa hai scoperto e amato, pensando "ma perché non ho iniziato prima?". E ti ricordi chi te lo ha fatto scoprire?”
Se non mi hai mai incontrato di persona sappi che io sono molto alta, poco più di un metro e ottanta. Sono così alta da quando ho 12 anni, dalla terza media. Questo, nella Taranto degli anni ‘80, significava una cosa sola: cartellino (cioè tesseramento) per giocare a basket anche senza saper giocare a basket. Oltre a non saper giocare ero lenta, lentissima, praticamente Pippo. E sempre senza fiato. Il mio allenatore, invece di allenarmi, mi disse “tu non hai fiato ma sei alta, quindi stai sotto canestro, prendila e buttala dentro”. Sorvoliamo. Avanti veloce.
Nel 2000, in piena Dot Com Economy, con la mia agenzia (ai tempi avevo una piccola agenzia, Daimon), prendiamo il cliente dei sogni, grazie a una società di consulenza (Yoda). Il cliente era Enervit, il progetto si chiamava Enerweb: un portale di informazioni per atleti e appassionati che girava intorno alla maratona e all’idea di sviluppare un’app (anche se le app non esistevano) per allenarsi. Intorno al tavolo delle riunioni di redazione allenatori e medici sportivi da far girare la testa, che a un certo punto lanciano una sfida: vi alleniamo per la maratona. Io avevo 30 anni, stavo bene, andavo in palestra tutti i giorni, facevo step e fitboxe (quanto mi manca!) e rispondo: ehi grazie, mi piacerebbe un sacco ma NON HO FIATO. Il tavolo di esperti mi guarda con compassione e passa oltre.
Lo vedi, il malinteso? Lo vedi il falso mito? Lo vedi quello di cui siamo convinti e che ci impedisce di fare qualcosa che potrebbe cambiarci la vita? Sorvoliamo, avanti veloce.
È il 2006, sono a Chicago. Nella scarpa (Nike) ho un sensore, in un apposito alloggiamento, che comunica all’Ipod quanti passi sto facendo. Ho appena comprato quelle scarpe e corro sul lungolago, fino a un pontile, felice come solo una persona che si è appena goduta una lunga corsa in un posto bellissimo può essere.
Chi mi ha fatto scoprire la corsa, dissipando il malinteso creato da quell’allenatore incapace? Chi è riuscito dove i migliori allenatori italiani non avevano superato la tirannia della mia convinzione? Due oggetti straordinari: prima ancora dell’iPod un rudimentale lettore di musica, li chiamavamo mp3. Avevo dieci canzoni dentro, giuste giuste per arrivare alla fine di una strada sterrata in campagna e ritorno. C’era dentro Toxic e Time is running out, tra le altre. Dopo la possibilità di correre ascoltando musica, il gusto di correre misurando il mondo prima, durante e dopo, geolocalizzando il movimento. Dove non ha potuto la logica ha vinto il gusto.
Ho un unico rimpianto: non aver accettato la sfida del team di Enerweb. Per fortuna la corsa è uno sport da anzyani :-)
Perché penso di avere ragione?
È quello che spero ti chiederai ogni giorno quando qualcosa ti sembra proprio “non da me”. Ogni volta che storcerai il naso. Ogni volta che qualcosa ti sembrerà certo e indiscutibile. Come non avere fiato. Come il viaggio dell’eroe.
Di che cosa abbiamo parlato
Dei cerchi. Del romanzo in cui il protagonista poteva dire “io”. Delle storie che non finiscono più, anche perché invecchiamo meno. Del fatal flaw del monomito. Del lieto fine che comunque è quasi sempre la parte più moscia. Degli oggetti che ti fanno venire voglia di muoverti. Della musica e delle mappe. Delle spirali evolutive.
Grazie e buon 25 aprile
Mafe
Molto bello, questo posto, Mafe. Non derivo da una formazione simile alla tua, ma rifletto da tempo sul potere delle narrazioni nella didattica (specialmente nelle aree più periferiche e meno battute di essa, vedi nelle discipline a torto considerate 'tecniche'). E ne ho piene le tasche del termine 'storytelling' che là viene usato come se fosse prezzemolo! Grazie anche per l'indicazione dei testi di Duarte, nei quali mi ero già imbattuta ma che non ho mai acquistato. Buona giornata! Simona
"Possiamo davvero dire, possiamo far dire ai nostri clienti, possiamo far pagare i nostri clienti per dire ai loro clienti che il lieto fine non esiste e che nella migliore delle ipotesi è solo il punto di una partenza di una nuova storia, di una spirale (evolutiva) invece che di un cerchio?" Ma certo che sì! Che cosa c'è di maggiormente auspicabile (lieto fine) di una crisi di senso (l'eroe che torna cambiato in un mondo uguale) che innesca un meccanismo trasformativo/evolutivo che ti apre a nuovi orizzonti?
Ammetto che però non ho compreso tutti i passaggi dell'articolo che hai scritto Mafe. In alcuni punti è troppo "alto" per me. E poi mi tocca fare le domande che nessuno ha il coraggio di fare. Vabbeh.