Ecco il video e la sintesi dell’incontro di aprile, oggi alle 17:30 ci vediamo per tornare a parlare di memetica.
La madre di tutte le bolle: una magia nera da disinnescare
Ho scelto aprile, il mese più crudele, per indagare una delle magie più pericolose e pervasive del nostro tempo: la bolla. Un concetto sfuggente, che ognuno definisce a modo proprio, e che per questo si comporta come un significante vuoto: stesso nome, significati diversi. Il mio, sono abbastanza sicura, non è quello a cui stai pensando tu.
Un giro di voci tra partecipanti mostra subito quanto il termine “bolla” venga vissuto come zona di conforto, un recinto abitato da simili, un circoletto che rassicura ma finisce per limitare. C’è chi la percepisce come un’eco, chi come protezione, chi come trappola. Ma in questa varietà di definizioni si rivela la sua natura: è un’illusione tanto più forte quanto più ci fa sentire sicuri.
La parola “bolla”, però, non nasce in senso sociale o metaforico. È un termine preciso a cui abbiamo tolto la parola più importante: “filter bubble”. È l’idea che gli algoritmi delle piattaforme ci mostrino solo ciò che ci piace, filtrando il resto. Eli Pariser coniò il termine nel 2011, denunciando non tanto Internet, ma ciò che Internet stava diventando: da spazio pubblico e accessibile a spazio chiuso e personalizzato, dove vediamo solo ciò che già sappiamo, crediamo, vogliamo volere.
Col tempo la bubble ha perso il filtro ed è scivolata nel linguaggio comune, diventando sinonimo di enclave sociale, di gruppo chiuso, di comunità di simili. Nel processo si è scambiata l’idea originaria, di confronto tra due internet diverse, per diventare confronto tra il digitale e il reale (un qualcosa che pensavamo superato ma che si ripropone come i peperoni). È diventata una magia nera, proprio perché il trucco è invisibile: la colpa sembra esterna (le piattaforme), mentre invece il filtro è lo specchio dei nostri comportamenti.
La madre di tutte le bolle è questa: pensare che la colpa sia dell’algoritmo, quando l’algoritmo rispecchia ciò che siamo. Vediamo fiorellini perché postiamo fiorellini, riceviamo contenuti rassicuranti perché abbiamo segnalato che vogliamo quelli. Anche il luogo fisico in cui ci troviamo, i nostri spostamenti, influiscono su ciò che vediamo online. Il GPS in tasca è un oracolo silenzioso. E ognuno di noi vede qualcosa di diverso, anche di molto diverso. Non esiste più una realtà comune a tutti, tranne rarissime eccezioni.
Sii Maria, ogni tanto
Per comodità, in contesti occasionali o poco significativi – dall’elettricista all’istruttrice di Pilates – io mi presento come Maria. Un nome semplice, a differenza di “Mafe”, che consente di evitare spiegazioni, ridurre il rumore, gestire l’interazione. Nel tempo, questa “Maria” si è moltiplicata: oggi sono in tanti a chiamarmi così e ogni tanto mi dico “adesso faccio un po’ Maria”, per indicare una versione più maneggevole e meno carica di aspettative della mia identità.
Questa molteplicità è perfettamente comprensibile tra esseri umani, ma diventa indecifrabile per un algoritmo. Come distinguere Maria da Mafe? Come decifrare la coesistenza di ruoli diversi, affiliazioni multiple, tonalità di presenza?
Qui entra in gioco un altro dettaglio chiave: Meta, e con essa gli algoritmi delle sue piattaforme (Instagram, Facebook, Thread), riceve dati anche da WhatsApp. E su WhatsApp noi siamo più noi, o almeno un po’ più veri che in pubblico. Non ci presentiamo con una maschera consapevole (restano quelle inconsapevoli), ma parliamo tra amici, familiari, colleghi con meno filtri. Ed è proprio da questa ambivalenza – tra l’alter ego pubblico e la voce privata – che emergono segnali contraddittori e sfuggenti per l’intelligenza artificiale che cerca di restituirci un mondo personalizzato.
E qui si annida il fastidio. Non tanto per l’algoritmo in sé, ma perché l’algoritmo ci restituisce ciò che siamo davvero —1 e non sempre ci piace. Preferiremmo credere che il feed sia manipolato dall’esterno, che la colpa sia del sistema, della piattaforma, della bolla. Ma il disagio che proviamo nasce spesso dal riconoscerci troppo bene: nelle nostre abitudini, nei nostri gusti ripetuti, nelle conferme che cerchiamo e nei silenzi che coltiviamo. In questo senso, la bolla non ci rinchiude: ci riflette. E l’immagine riflessa non è sempre lusinghiera.
Contro questa illusione ci sono almeno tre antidoti. Tre incantesimi di protezione:
Vai sempre alle fonti. Da dove viene un’informazione? Chi l’ha detta davvero? In che contesto? È un esercizio di libertà intellettuale, oggi sempre più necessario.
Bilanciare le narrazioni con contenuti anticorpo. Se ti scandalizzi per il consumo di acqua ed energia delle AI, vai a vedere l’impatto ambientale dell’hamburger che ti sei fatto portare a casa ieri sera. Non si tratta di negare, ma di contestualizzare, di allargare il frame.
Addestrare gli algoritmi, continuando ad addestrare noi stessi. Dare segnali chiari, vari, curiosi. Se vogliamo uscire dalla bolla, dobbiamo prima cambiare noi. Aprirci a contenuti nuovi, interagire con diversità, studiare.
Nel film War Games, il computer si rifiuta di giocare alla guerra: "È un gioco strano. L’unico modo per vincere è non giocare." Lo stesso vale per le bolle: il modo migliore per non restare intrappolati è non credere che sia il filtro a decidere per te, non credere che sia tutto già deciso. L’incantesimo necessario è arricchire e diversificare la tua vita. Cambiare prospettiva, incontrare voci nuove, coltivare esperienze dissonanti, uscire dal tracciato. Ogni deviazione reale si traduce in un segnale nuovo nel sistema. Ogni passo fuori dalla bolla è un passo dentro al mondo.
Ogni tanto, anche a noi tocca dire: “Adesso faccio un po’ Maria.” Cioè esco dal mio ruolo, cambio maschera, mi faccio sorprendere da qualcosa che non avevo previsto.
Perché le bolle non si rompono con la rabbia. Si rompono con la curiosità.
Lo diceva già, diversi anni fa, Ronald Laing:
Stanno giocando a un gioco. Stanno giocando a non giocare un gioco. Se mostro loro che li vedo giocare, infrangerò le regole e mi puniranno. Devo giocare al loro gioco, di non vedere che vedo il gioco.
Io al loro gioco non ci sto più.
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