Devo fare così, se no non inizio più. Sto covando questo progetto da mesi e ho troppe cose da dire e da fare prima di iniziare, quindi inizio con lo story hack più antico: parto nel bel mezzo degli eventi, in piena azione, senza troppi preamboli.
Stufa di leggere la parola storytelling smarmellata (cit) ovunque, stufa di spiegare perché, stufa di essere stufa, ho deciso di eliminare il tell dalla story (come sappiamo da tempi meno antichi, ma comunque lontani) e di concentrarmi su quello che amo di più: far vivere una storia a qualcuno, non raccontargliela.
Ogni storia che si rispetti parte da una chiamata (muovi il culo), è seguita da una resistenza (divano!) e può partire solo quando la chiamata non ammette dinieghi. La resistenza, quasi sempre, si basa su quello che Lisa Cron chiama un malinteso. Non fa per me. Sono fatta così. Resto sul divano perché da bambina mi hanno fatto fare un giro di campo e ho lasciato i polmoni nel palazzetto dello sport, quindi non mi piace fare sport. Mi nutro di junk food perché il cibo sano è insapore, ricordo ancora le zucchine lesse fino a sfarsi della prozia. L’odore della carta. Il tempo che non si trova. La sveglia che suona sempre troppo presto. I chili di “ma io non sono social” che ho sentito nella mia vita.
E poi arriva la chiamata, che siano le analisi del sangue, il peso della valigia, le borse sotto gli occhi o il burnout. Sono tutte chiamate - call to adventure, CTA - un po’ meno intriganti di quelle della letteratura, del cinema, dei videogiochi o delle serie tv, ma altrettanto vere, come vere devono essere le avventure a cui invitiamo. Se il marketing si riempie così tanto la bocca della parola storytelling è perché il marketing, in fondo, è l’arte di invitare a mettere in discussione dei malintesi. Anche per questo ogni episodio di Story Hacking avrà un ospite a cui farò sempre la stessa domanda.
La prima ospite è Marina Pierri, autrice di Eroine. Come i personaggi delle serie tv possono aiutarti a fiorire. e del podcast Soglie. Viaggio nei mondi narrativi. Se vuoi ascoltarlo Storytel ci ha gentilmente messo a disposizione una prova gratuita di 30 giorni. Ascoltatelo e poi ne riparliamo, perché se il viaggio dell’eroe implica un cambiamento, una trasformazione del protagonista, il viaggio dell’eroina fa saltare il tavolo del patriarcato e del mondo ordinario in cui la storia inizia. Ci torneremo: è uno dei più importanti story hack da assorbire.
La risposta di Marina Pierri
“Cosa hai scoperto e amato, pensando "ma perché non ho iniziato prima?". E ti ricordi chi te lo ha fatto scoprire?”
Ti posso parlare del mio rapporto con i videogiochi, che sono una parte fondamentale - per me - del lavoro di narratologa e svolgono anche una funzione abbastanza cruciale di scarico emotivo, intellettuale e sensoriale. C'è da dire che occuparsi di storie significa non smettere mai di lavorare: manco quando prendi la metro, vai a fare la spesa o ti preoccupi per il gatto nervoso a causa di un'altra gattina che piomba dal tetto (true story). Quindi, va premesso che con i videogiochi mi libero sempre a metà, nel senso che il cervello macina informazioni ma in un altro modo, forse un modo più materiale, più fisico perché il corpo è direttamente coinvolto, a differenza per esempio della lettura o della spettatorialità. Vorrei che Susan Sontag fosse ancora viva per chiederle cosa ne pensa: l'interpretazione dei fatti di una storia videoludica ha un incedere diverso da tutte le altre non perché sia diverso in sé, ma perché è diverso il tuo modo di viverli.
La mia storia con i videogiochi comincia quando sono molto piccola e mio padre mi mette tra le mani una consolle, precisamente il Nintendo. Ai tempi, come tutt*, gioco a Super Mario e Kid Icarus, Prince of Persia e Zelda. Il fulmine delle storie, però, arriva con l'Amiga. È il 1993 quando inizio a giocare a Monkey Island e scopro l'ebbrezza dell'open world, su cui oggi sono basati un'ottima quantità di videogiochi. Per me, a oggi, non c'è libertà che abbia lo stesso sapore del gironzolare in un mondo fatto di pixel nel quale devi fare valere le tue capacità di dialogo e di combattimento. Comunque. È il 1993 quando inizio a giocare a Monkey Island e lo faccio con il mio primo amore vero-e-proprio, un ragazzo di nome Gianni, fratello di una mia amica di scuola. Lui e Guybrush Threepwood si fondono un po' nella mia immaginazione, anche adesso, e dettano lo standard dei miei futuri sodalizi eterosessuali a venire. Arrivano, con gli anni, altre cose: Monkey Island 2 e 3, avventure punta e clicca LucasArts e non solo, le tette appuntite di Lara Croft e un buon numero di giochi che sono stati inghiottiti dalle sabbie mobili dell'età.
Ma ecco arrivare il grande stop. Non gioco più.
Fast forward al 2013, quando compro una Playstation e scopro Heavy Rain della Quantum Dream: un gioco solo dialogico, con pochissima azione, che anche adesso setta uno standard molto immaginativo per i videogiochi, dove sostanzialmente costruisci la storia tu stessa (secondo una cosiddetta branching narrative, ossia una narrativa a forma di albero con diverse opzioni e diverse conseguenze) come accadeva nei celebri librogame. E arriva anche la nuova Lara Croft, con il nuovo Tomb Raider. Non ha più le tette appuntite. È una figa pazzesca, lo era anche prima, ma ora è un simulacro più efficiente di essere umano. Una cosa che mi pare di non aver mai visto. Quanto sono cambiati i videogiochi, in vent'anni? E cosa ho fatto, nel frattempo? Ecco, a quel punto, sempre nel 2013 mi chiedo: «Ma perché non ho (ri) iniziato prima?». Nessuna persona mi ha spinto, che io ricordi; mi sono spinta da sola come mi capita quasi sempre, con qualche eccezione. Sono una testarda e spesso rispondo, ai consigli: «Ah, certo, devo leggere/guardare/fare, d'accordo, grazie», ma poi non lo faccio perché tendo a tessere le mie trame e seguire i miei sentieri. Comunque, dal 2013 a oggi non ho mai più smesso di giocare. I videogiochi scandiscono tutte le tappe della mia vita recente, anche della mia attuale relazione, per esempio. Ho conosciuto Carmelo, il mio compagno, l'11 ottobre del 2014. Lo ricordo bene, perché la data è memorizzata nella mia Playstation 3: è il giorno in cui ho concluso, piangendo, Mass Effect 3. Non volevo manco uscire quella sera, non volevo finire nel bar dove ho incontro con la persona con cui sto da quasi dieci anni. Eppure l'ho fatto. Come nelle migliori narrative ad albero, questa opzione ha determinato la mia timeline attuale. Certo, anche Mass Effect è un gioco con narrativa ad albero. Tutti i miei videogiochi preferiti lo sono, anche Witcher III. Non ho mai più giocato a un gioco come Witcher III. Credo sia il mio preferito di sempre. Dopo Monkey island, naturalmente.
Perché non ho iniziato prima
È quello che spero ti chiederai dopo aver iniziato ad hackerare le storie con me. Non solo per il gusto di farlo, ma perché è così che funzionano.
Di che cosa abbiamo parlato
Dei malintesi. Dei videogiochi che sono storie. Dell’iniziare in qualsiasi punto di una storia. Del tell di cui possiamo liberarci. Del far saltare i tavoli.
Grazie e buona primavera
Story Hacking è uno spazio di confronto ed esercizio. I post sono per tutti, ma c’è di più. Vuoi sbirciare?
Half Life 2 avrà sempre il mio cuore. Morte ai combine